Proposta Radicale 5 2022
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Saggio

Omnium rerum

vicissitudo est

di Otello Lupacchini

Secondo il mito protagoreo di Prometeo, Zeus, per porre fine alle continue discordie che si venivano a creare tra gli umani tutte le volte che tentavano di organizzarsi in comunità, incaricò Ermes di distribuire a tutti i mortali il “pudore” e la “giustizia”, cioè le due qualità fondanti la “virtù politica”. Ebbene, oggi, immersi come sono nella corruzione, nell’abuso di potere e nello sfrontato privilegio, molti, troppi fra coloro che più di altri avrebbero dovuto tenere in onore quegli antichi doni divini – “pudore” e “giustizia” –, vi hanno sputato ingratamente sopra, smarrendo il senso dell’uno e dell’altra.

(Giovanni Soriano)

1. «Piove sul giusto e piove sull’ingiusto, ma sul giusto di più perché l’ingiusto gli ha rubato l’ombrello. (Lord Bowen). – Pongo una domanda provocatoria: se nell’Italia del Terzo Millennio vi sia ancora spazio per il Terzo Potere. Ciò equivale, infatti, a evocare il conflitto tra politica e magistratura che, dopo aver contrassegnato la lunga transizione italiana dalla «Prima Repubblica» alla «Seconda Repubblica», sembrava destinato a trovare definitiva composizione – ma quale? – nella soltanto promessa o, almeno per taluni, addirittura minacciata, «Terza Repubblica». Un conflitto costituzionale, in cui ne va della separazione dei poteri, anzi, di diverse possibili interpretazioni di quel principio essenziale del costituzionalismo liberale moderno. 

Questo conflitto non è fenomeno né nuovo né esclusivamente italiano: la tensione tra politica e giustizia è generale, sebbene si moduli diversamente nelle diverse situazioni nazionali, in relazione ai differenti contesti ordinamentali e culturali che le caratterizzano e agli eventi contingenti che vi intervengono. Esso, peraltro, presenta nel tempo un corso altalenante, tanto che l’atteggiarsi dei rapporti tra i contendenti si può ormai descrivere attraverso l’«apologo del Garigliano», magistrale metafora del principio omnium rerum vicissitudo est

«Era un tempo che il leone e l’asino erano compagni; ed andando insieme in peregrinaggio, convennero che, al passar de’ fiumi, si tranassero a vicenna: com’è dire, che una volta l’asino portasse sopra il leone, ed un’altra volta il leone portasse l’asino. Avendono, dunque, ad andar a Roma, e, non essendo a lor serviggio né scafa né ponte, gionti al fiume Garigliano, l’asino si tolse il leone sopra: il quale natando verso l’altra riva, il leon, per tema di cascare, sempre più e più gli piantava l’unghie ne la pelle, di sorte che a quel povero animale gli penetrorno in sin all’ossa. Ed il miserello, come quel che fa professione di pazienza, passò al meglio che poté, senza far motto. Se non che, gionti a salvamento fuor de l’acqua, si scrollò un poco il dorso, e si svoltò la schena tre o quattro volte per l’arena calda, e passoron oltre. Otto giorni dopo, al ritornare che fecero, era il dovero che il leone portasse l’asino. Il quale, essendogli sopra, per non cascar ne l’acqua co i denti afferrò la cervice del leone: e ciò non bastando per tenerlo su, gli cacciò il suo strumento, — o, come vogliam dire, il…, tu m’intendi, — per parlar onestamente, al vacuo, sotto la coda, dove manca la pelle: di maniera ch’il leone sentì maggior angoscia che sentir possa donna che sia nelle pene del parto, gridando: “Olà, olà, oi, oi, oi, oimè! olà, traditore!” A cui rispose l’asino, in volto severo e grave tuono: “Pazienza, fratel mio: vedi ch’io non ho altr’unghia che questa d’attaccarmi”. E cossì fu necessario ch’il leone suffrisse ed indurasse, sin che fusse passato il fiume. — A proposito: «Omnio rero vecissitudo este»; e nisciuno è tanto grosso asino, che qualche volta, venendogli a proposito, non si serva de l’occasione».

Il ricorso alla metafora bruniana per spiegare gli alterni esiti del conflitto tra Politica e Giustizia, è il disvelamento, l’epifania di un’appartenenza a un modo di «pensare» e, ancor prima, di «sentire» letterario. Quel «sentire» rappresentato da Robert Musil nel suo capolavoro L’uomo senza qualità, a proposito della signorina Strastil, che, se pure s’intende «poco di letteratura», s’aspetta, non diversamente da «tutti gli altri», che l’arte «scuota, commuova, diverta, sorprenda», che «porti ad annusare sublimi pensieri» e che «persuada di essere per sé e per gli altri una straordinaria “vicenda”».

Se, per dirla con Musil, «Affrontare la vita con l’aiuto della morale che ci è trasmessa è come avviarsi su una corda», nulla più del senso morale veicolato dal linguaggio artistico, circonda ed esalta il valore in sé della condizione umana (1) e la letteratura ci consente, dunque, di raggiungere una mirabile «condizione senza scopo», nella quale il nutrimento delle opportunità delinea il bene e il male della vita umana nelle giuste proporzioni, traghettandoci, con il mezzo della forma artistica, sulle rive desiderate di approdo, come si trattasse di un ritorno a se stessi. 

Se le intuizioni dei grandi letterati del passato, siano essi Swift o Dikens, Rabelais o Dürrenmatt, Kafka o Dostoevskij, offre un quadro della giustizia e del processo, più veritiero di qualsiasi trattazione giuridica, i toni sguaiatamente rissosi e rozzamente propagandistici e, dunque, il progressivo scadimento del dibattito politico-istituzionale sull’amministrazione della giustizia a livelli d’intollerabile sciatteria, mi suggeriscono di interloquire «recte atque condigne», rifuggendo le tentazioni del discorso retorico, così da affrontare la performance funambolica sgravato del peso del mio passato e della mia storia personale, vista la pessima fama che, nei secoli, si tirano dietro gli altercanti, tanto se «legisti» quanto se «politicanti», i quali, da sempre, si arrampicano sugli specchi per affermare la pretesa bontà delle rispettive ragioni.

2. Clausulae insolitae indicunt suspicionem, ma «Chi rompe non paga e si siede al governo» (Leo Longanesi) – Senza spingersi troppo lontano, già Martin Lutero, affermava che «Ogni uomo di legge o è una carogna o è un ignorante». Il teologo di Eisleben e iniziatore della Riforma in Germania, però, non è il solo ad aver istituito l’equazione Juristen sind böse Christen: Jonathan Swift, nel 1726, mette in bocca al capitano Lemuel Gulliver un impietoso ed articolato giudizio sui giuristi, siano essi avvocati oppure giudici, quando, durante il suo ultimo viaggio, che l’ha portato nel mondo degli Houyhnhnms, cavalli razionali e parlanti, esseri saggi che rappresentano chiaramente ciò che gli umani dovrebbero essere per formare una società perfetta, cerca di spiegare il significato della parola «legge».

Il Cavallo che ha salvato il buon capitano non si capacita di come la legge, «il cui fine è di rendere giustizia a ognuno, possa essere anche la sua rovina». Lo prega, dunque, di spiegargli esattamente cos’egli intenda con la parola «legge», visto che «la natura e la ragione» sarebbero «guide sicure» per quanti si ritengono, come loro, «esseri razionali, capaci di discernere il lecito e l’illecito». Dopo aver rassicurato «Sua Grazia» la giumenta, che la legge era scienza da lui assai poco praticata, avendo soltanto una volta incaricato invano un avvocato di risolvere certe ingiustizie di cui era stato vittima, Lemuel Gulliver spiega come esista, nel suo Paese, «una confraternita d’uomini educati fin da giovani nell’arte di dimostrare, con appropriata moltiplicazione di parole, che il bianco è nero o il nero è bianco, secondo chi li paga: e il resto della popolazione è schiava di codesta congrega». Quindi, esemplifica: «se il mio vicino mette gli occhi sulla mia vacca, egli può incaricare un avvocato di dimostrare che la mia vacca spetta a lui; e io debbo incaricare un altro avvocato di difendere i miei diritti, essendo vietato da tutte le regole di legge che un uomo possa sostenere da sé la propria causa. Ora, in tal caso, io che sono il vero proprietario della vacca soffro di due grandi svantaggi: per prima cosa, essendo il mio avvocato stato addestrato fin quasi dalla culla a sostenere il falso, quando deve chiedere giustizia si trova come un pesce fuor d’acqua; e questo compito, per lui innaturale, egli lo affronta con molta goffaggine, se non addirittura di malavoglia; il secondo svantaggio è che il mio avvocato deve procedere con i piedi di piombo, altrimenti verrà ammonito dai Giudici e detestato dai suoi confratelli, come uno che vuol avvilire le usanze della legge. Dunque, mi rimangono soltanto due metodi per conservar la mia vacca. Il primo è d’accattivarmi l’avvocato del mio avversario offrendogli una seconda parcella, affinché tradisca il suo cliente insinuando che costui è veramente nel giusto. Il secondo è che il mio avvocato faccia apparire che io sono massimamente nel torto, concedendo che la vacca appartiene al mio avversario. Se condotto con destrezza, questo maneggio incontrerà sicuramente il favore dei magistrati».

Sistemati gli avvocati, Lemuel Gulliver passa ad occuparsi dei giudici, «persone designate a risolvere tutte le controversie di proprietà, nonché a condurre i processi penali», fra le quali vige la regola secondo cui «qualsiasi cosa sia stata già fatta può essere legalmente ripetuta». Di qui la «speciale cura» che hanno questi «legulei» di far registrare «tutte le decisioni precedentemente prese, contrarie alla giustizia comune e al buonsenso dell’umanità», per presentarle «come testi autorevoli, sotto il nome di precedenti, per giustificare i più iniqui giudizi». I giudici, insomma, «non mancano mai di sentenziare conformemente a tale pratica». E se, nel perorare una causa, «essi evitano studiosamente d’entrare nel merito della questione», sono, al contrario «roboanti, pugnaci e tediosi nel trattare tutte le circostanze, che nulla dicono allo scopo del caso». E, ancora una volta, esemplifica: nel caso sopra detto, cioè la controversia de proprietate del bovino, «non vorranno sapere quale titolo o quale diritto accampa l’avversario sulla mia vacca, bensì se la vacca sia rossa o nera, se le sue corna sono lunghe o corte, se il prato ove la pongo a pascolare è rotondo o quadrato, se la mungo dentro o fuori dalla stalla, se è soggetta a malattie, e simili. Fatto questo, essi consultano i precedenti, e rinviano da un’udienza all’altra la causa, che si concluderà soltanto dopo dieci, venti o trent’anni».

Non contento, l’ottimo Gulliver è ancora prodigo di spiegazioni: «codesta confraternita ha una sua speciale parlata, ovverosia un gergo, che nessun altro mortale riesce a intendere; e con questo redigono tutte le loro leggi, ch’essi hanno speciale premura di moltiplicare», al punto che avendo, in tal modo, «talmente stravolto l’essenza stessa del vero e del falso, della ragione e del torto», saranno necessari «trent’anni per decidere se il campo lasciatomi in eredità da sei generazioni appartenga a me oppure a un estraneo che abita a trecento miglia da qui». Certo, però, sottolinea, il metodo «è assai più conciso e commendevole», quando si tratti di «processi a persone accusate di delitti contro lo Stato», in quanto, il giudice, «per prima cosa manda a sentire come la pensa chi è al potere; fatto questo, senza darsi tanti pensieri può impiccare o salvare il criminale, attenendosi strettamente alle procedure di legge».

A questo punto, a «Sua Grazia», che lo interrompe, «rammaricandosi che creature dotate di tali prodigiose capacità di mente, come (devono) sicuramente essere quegli uomini di legge, non (siano) piuttosto sollecitate a farsi maestri di saggezza e conoscenza», Lemuel Gulliver spiega sconfortato che, «per tutto quanto non (rientra) nel loro mestiere, essi (sono) solitamente la più ignorante e stupida razza d’uomini che vi (sia) tra noi, e la più insopportabile nelle comuni conversazioni: nemica giurata d’ogni dottrina e conoscenza, nonché sempre incline a pervertire qualsiasi forma di senso comune dell’umanità, in ogni materia di discorso, non altrimenti che nella loro professione».

Di fronte a questa analisi swiftiana, verrebbe da ripetere col Qoelet «… Ciò che è stato sarà/e ciò che si è fatto si rifarà;/non c’è niente di nuovo sotto il sole./C’è forse qualcosa di cui si possa dire:/«Guarda, questa è una novità»?/ Proprio questa è già stata nei secoli/che ci hanno preceduto…». E neppure nuovo, del resto, è il tenore delle critiche che spesso oggi si rivolgono alla politica. Basti ascoltare la descrizione che della figura del «primo ministro» il capitano Lemuel Gulliver fa a «Sua Grazia» la giumenta, attingendo a «quello che n’era stato scritto e detto in mille occasioni». Vale a dire quella di un individuo «del tutto incapace di gioia o di tristezza, di amore o di odio, di pietà o di collera, o che almeno non doveva manifestare alcuna passione, salvo l’ardente desiderio di conquistare ricchezze, potenza, o titoli onorifici». Congerie, insomma, delle peggiori caratteristiche: «Egli suole adoperare le parole per i più svariati usi tranne che per esprimere il proprio pensiero, e non dice mai una verità a meno che non sia per lo scopo di farla credere una menzogna; coloro dei quali egli dice male dietro le spalle si trovano certamente sulla buona strada per avere una promozione, mentre chi venga da lui lodato in faccia o in presenza altrui, si può ritenere un uomo perduto. La promessa di un ministro, specialmente se convalidata con un buon giuramento, costituisce il peggior augurio del mondo, e, dopo averla ricevuta, una persona di buon senso non può far altro che ritirarsi in buon ordine e lasciare ogni speranza». Pronto a tutto, pur di raggiungere il potere: tanto gli fa «servirsi prudentemente d’una moglie, d’una figlia o d’una sorella»; quanto «tradire o minare sotto sotto il proprio predecessore»; sebbene il «distinguersi nelle pubbliche assemblee per un furioso zelo contro la corruzione della corte» sia il mezzo più sicuro, «perché gli oppositori più fanatici diventano sempre i ministri più servilmente sottomessi ai voleri e alle passioni del loro monarca». Il suo palazzo, spiega ancora il capitano Gulliver, «è una vera scuola dove si tirano su gli aspiranti a codesta professione: paggi, servitori, uscieri imitano il loro padrone, sicché diventano altrettanti ministri, ciascuno per la propria sfera, e si perfezionano sempre più nei tre principali rami dell’arte, che sono l’insolenza, la bugia e la corruzione. Ciascuno d’essi ha una piccola corte composta di personaggi altolocati, e talora a forza di furberia e di sfacciataggine qualcuno di loro riesce un po’ alla volta a diventare il successore del proprio padrone». Fulminante la conclusione di Lemuel Gulliver: «Il primo ministro è generalmente sottoposto ai voleri di un’amante attempata, oppure d’un cameriere prediletto, e per mezzo di costoro si distribuiscono i favori; sicché essi, alla fine delle fini, possono ben dirsi i reggitori del paese».

3. Fidem qui perdit, perdere ultra nihil potest. – Riprendendo il discorso interrotto dalla digressione sugli altercanti, preme evidenziare che negli ultimi decenni si è assistito, da un lato, alla progressiva e sempre più invadente «giuridicizzazione» delle relazioni sociali, ma anche alla progressiva espansione delle materie sottoposte a regolazione giuridica, che sollecitano interventi del magistrato sempre più creativi e discrezionali. E, dall’altro, alla crescita dei poteri illegali e criminali, nazionali e internazionali, che ha investito in pieno le democrazie, inducendo nei cittadini un crescente malessere e una diffusa domanda di giustizia. Anche a causa della crescente incapacità dei partiti di trasmettere le domande della società e del generale venir meno del ruolo delle opposizioni, in questo scenario, il «giudice» si è andato trasformando irreversibilmente, da interprete della legge a intermediario tra società e Stato, entrando obiettivamente – ma sempre più spesso anche soggettivamente – in tensione e in conflitto con i rappresentanti politici. 

Questi ultimi, ridotti, per contro, a causa del restringimento dei margini d’iniziativa e di autonomia decisionale conseguente ai processi di globalizzazione dell’economia e di crisi della politica elettorale, a una funzione sempre più residuale, vicaria e non di rado parassitaria, sono spesso tentati di compensare il loro potere declinante e precario procurandosi rendite illegali. Ecco, dunque, che le magistrature nazionali finiscono per essere investite di un’impropria funzione di «controllo della virtù», travalicante quella della mera legalità. Ciò ne ha sicuramente accresciuto il prestigio, ma ha anche acuito conflitti e sollevato interrogativi circa i limiti di compatibilità democratica di una siffatta «juristocracy».

La giuridicizzazione crescente delle relazioni sociali e di espansione dell’illegalità politico-economica ha investito in pieno le democrazie sollecitando tra i cittadini un crescente malessere e una diffusa domanda di giustizia. In questo scenario, il «giudice» si è andato irreversibilmente trasformando, anche per la crescente incapacità dei partiti di trasmettere le domande della società e per il generale venir meno del ruolo delle opposizioni, da agente della legge in interprete dei diritti dei cittadini, oltre che in intermediario tra società e Stato, entrando obiettivamente, ma sempre più spesso anche soggettivamente, in tensione e in conflitto con i rappresentanti politici.

Il rilievo crescente della giustizia nella società, d’altra parte, si è accompagnato paradossalmente a un atteggiamento di crescente sfiducia nei confronti dei giudici. E si sa quanto sia di vitale importanza, per una società democraticamente organizzata, che la collettività creda nella giustizia amministrata in suo nome. Non è un caso, infatti, che il Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa ammonisca, in proposito: «I giudici, che fanno parte della società che servono, non possono rendere giustizia in modo efficace senza godere della fiducia del pubblico». 

Insomma, per la tenuta sociale di un Paese, credere nel modo con cui si rende giustizia sarebbe addirittura più importante del contenuto della giustizia stessa. Posizione questa condivisa da chi ritiene che una società non possa sopravvivere democraticamente se non sia in grado di consegnare con fiducia a un soggetto imparziale il potere di emettere, al termine di un itinerario cognitivo che essa stessa ha tracciato attraverso le sue leggi, una decisione che sia poi disposta a rispettare come verità.  Res iudicata pro veritate habetur: «questa fiducia stabilizza i rapporti sociali e disinnesca, processualizzandolo, il dissenso». 

Inutile aggiungere che quando poi, come nella specie, la ricerca filosofico-giuridica abbia ricadute sulla difesa e la tutela della dignità umana, essa deve comunque caratterizzarsi per un profondo umanesimo. Già Francesco Petrarca, che secondo certa dottrina rappresenta l’archetipo della figura dell’intellettuale europeo (K. Stierle, Francesco Petrarca. Ein Intellektueller im Europa des 14. Jahrhunderts, Carl Hanser Verlag, München 2003), in una celebre lettera scritta ad uno studente di diritto, affermava: «La maggior parte dei nostri legisti poco o nulla curando il conoscersi delle origini del diritto e dei primi padri della giurisprudenza, né ad altro fine mirando che a trar guadagno dal suo mestiere (…) non pensa che il conoscersi delle arti, e i primordi e gli autori è di aiuto grandissimo all’uso pratico delle medesime». È, peraltro, M.A. Cattaneo, Riflessioni sull’umanesimo giuridico, Edizioni Scientifiche Italiane (collana Filosofia del diritto e dignità umana), Torino, 2004, ad invitare il ricercatore che si avvicina alla materia ad essere umile, senza pretendere, ma interessato a porre dei problemi, secondo l’insegnamento di Socrate per cui il vero sapiente è colui che sa di non sapere. In un altro suo lavoro, M.A. Cattaneo, Dignità umana e pace perpetua: Kant e la critica della politica, osserva che «ogni essere umano ha una giustificata pretesa al rispetto degli altri uomini, e reciprocamente ha il dovere di rispettare gli altri; infatti, l’umanità in sé è una dignità»: a tal fine l’A. si avvale della letteratura per una maggiore consapevolezza dei valori fondanti l’ordinamento giuridico e per la salvaguardia degli istituti depositari, nell’ambito dello Stato di diritto, dell’indipendenza morale, della libertà e della dignità dell’uomo: si pensi, in proposito, all’utilizzo della concezione etico-giuridica manzoniana dei Promessi sposi e de La Storia della Colonna Infame. Per E. Betti, Le categorie civilistiche dell’interpretazione, «Rivista italiana per le scienze giuridiche», 1948, 55, 1-4, pp. 34-92, il giurista, ancor prima di essere informato superficialmente da tante numerose fonti di notizie specializzate e informatizzate, deve essere colto, ricco di sensibilità giuridica, attento alla dinamicità dell’ordinamento e della società, dotato di inventiva, immaginazione, di un metodo nell’argomentazione e nella conoscenza. Per A. Falzea, Sistema culturale e sistema giuridico, in «Rivista di diritto civile», 1988, il diritto è complessità e cultura: «che il diritto faccia parte della cultura è constatazione logicamente necessaria. I caratteri incontroversi del diritto sono, com’è noto, la umanità e la socialità; il carattere emergente della realtà umana, ed anche questo è noto, è la spiritualità; e poiché la spiritualità nella dimensione sociale costituisce la cultura, ne segue che il diritto, in quanto fenomeno umano e sociale, non può non appartenere alla cultura». I temi dell’umanesimo giuridico, come si ricava dalle cose dette, evocano quelli del personalismo giuridico, che custodisce presso la nostra sede universitaria una delle sue più vive correnti di pensiero.

(Fine prima parte)

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